"Verso il Cuore Bianco
della Terra"
Ed. Corbaccio 2018
APPROFONDIMENTI al libro
Riferimenti storici
(Pag 58 del libro) --
Eravamo di fronte l’Oceano, dunque; quel Pacifico più volte visitato (con cura particolare…) lungo gli incredibili fiordi ed isole della cosidetta Panhandle. Il Pacifico settentrionale, quello che lambisce l’Alaska sud orientale, luoghi di foreste così fitte e ghiacciai così vasti e vette così remote ed alte da farti sentire insignificante (ogni volta che si sia dispersi col proprio kajak o che si stia traversando in sci), come si fosse tornati ai primordi del Pianeta.
L’Alaska del Pacifico, terra ancestrale di altre incredibili popolazioni native, tra le quali i Tlingit coi loro magnifici Totem colorati, gli Haida e i Tsimshian o gli Eyak ed i Copper Indians, abitanti le zone che ora avevo attorno. Rammento di essi, quella sera, le tristi storie risalenti il primo contatto con i bianchi; storie che ne sono l’inizio (si potrebbe dire) della lunga agonia che, in Alaska, sarebbe stata definita the Big Death dai nativi stessi (la Grande Morte); essa appunto, cominciò qui, dalle coste del Pacifico… Una storia che val la pena di conoscere prima di addentrarci in Alaska; storia della quale brama di potere e fini di lucro (da quand’uomo esiste) furono i propellenti principali. Attorno al 1700, l’impellente interrogativo geografico che arrovellava navigatori e politici assieme, era scoprire se Asia ed America fossero unite. E questo, più che per un fatto di mera curiosità, nasceva da un ben preciso calcolo economico; lo Zar Pietro il Grande, di fatti, ben si rendeva conto dei potenziali benefici che avrebbe tratto dalla possibile scoperta di un passaggio a nord est (un punto che avrebbe così potuto connettere la Siberia al nuovo continente), accorciando a tal modo i tempi di navigazione necessari per la rotta dall’Europa al Giappone; le altre potenze (Inghilterra ed Olanda) avrebbero inoltre dovuto pagare un pedaggio così come avevano fatto la Spagna nello stretto di Gibilterra e la Danimarca nel Sund danese.
Fu per questo che nel 1724 Pietro il Grande organizzò una prima spedizione dalla penisola di Kamchatka. Spedizione alla quale egli impartì ordini ben precisi:
“Proseguirete fino ad accertare se Asia ed America siano congiunte o no da terra ferma e andrete non soltanto a nord ma anche a est e ad ovest e trascriverete su una mappa tutto ciò che vedrete”.
L’ammiragliato scelse il danese Vitus Bering come comandante della spedizione.
La prima parte del viaggio avvenne via terra fino alla penisola di Kamchatka. In primavera, dopo aver lavorato tutto l’inverno alla costruzione di un solido vascello, Bering ed il suo equipaggio si prepararono ad affrontare l’ignoto. Il 14 luglio 1728, circa tre anni dopo la partenza da Pietroburgo la nave di Bering, la “San Gabriele”, salpò alla scoperta della “Grande Terra”.
Vasco de Gama o Magellano forse avevano intrapreso viaggi anche più difficili, ma almeno sapevano dove andavano; Colombo (come in parte Bering spaventato dall’ignoto dell’Artico), non era certo che all’estremo limite dell’oceano non vi fosse l’abisso e quindi la caduta nel vuoto.
Per cinque settimane Bering costeggiò la penisola Kamchatka verso nord, quindi virò verso nord est. Il 10 agosto passò davanti a un’isola non lontana dall’Alaska e decise di chiamarla San Lorenzo nome che porta tuttora. Qualche giorno dopo, senza rendersene conto, Bering passò lo stretto tra Asia ed America, quello che oggi porta il suo nome. Con condizioni meteo favorevoli è possibile scorgere contemporaneamente i due continenti, ma in quella infausta storica giornata, la fitta nebbia nascose la costa americana. Doveva comunque esserci una terra ferma non troppo distante, notò Bering, come ben dimostravano gli uccelli in volo verso est e gli alberi di varietà sconosciute che galleggiavano sulla superficie o, ancora, le “onde basse” caratteristica dei mari stretti. Bering, ad un nulla dalla meta, intimorito dall’inverno oramai prossimo, decise di rivolgere la prua a sud.
Dodici anni dovettero trascorrere prima che un nuovo tentativo fosse infine pronto; solo nel giugno del 1741, Vitus Bering e i suoi uomini salparono nuovamente da Kamchatka con la nuova nave battezzata “San Pietro”; questo secondo viaggio (denominato “la Grande Spedizione a Nord”), era “…lussuosamente equipaggiato, biologi, botanici (tra cui lo straordinario Georg Wilhelm Steller) vi eran partecipi, disegnatori, interpreti…”
Raggiunto ancora una volta il Nord, dopo aver sostenuto numerose tempeste, quando da diversi giorni una fitta nebbia aleggiava sul mare infondendo sfiducia ed avvilimento nell’equipaggio, la mattina del 16 agosto gli uomini della nave si affollarono sul ponte. Poco dopo mezzogiorno le nubi si diradarono e davanti a loro, come fosse appena sorta dal mare, apparve in tutta la sua maestosità la vetta del Mount St. Elias (5489 metri).
Avevano trovato il passaggio a nord est!
Fu proprio il botanico tedesco Steller, sulla selvaggia spiaggia antistante il Malaspina Glacier (quello dal quale avrei voluto partire…), il primo bianco a metter piede in Alaska. “Fra tutti i geni nutriti dalla Russia (racconta Colin Thubron nel suo libro “In Siberia”), questo naturalista tedesco, ignorato in vita, fu uno dei più brillanti. Dopo anni di viaggi nell’Artico, egli aveva scoperto e classificato una moltitudine di nuove piante ed arbusti oltre a una sorprendente quantità di mammiferi, uccelli e pesci sino ad allora sconosciuti. Il Cormorano dagli Occhiali da lui registrato (uccello tozzo e goffo con ali inutilizzabili) adesso è estinto ed anche il Corvo Bianco di Steller non è stato mai più visto. Ma il Leone Marino di Steller, l’Edredone di Steller, la bellissima Ghiandaia di Steller e l’Esagramma di Steller (una trota marina iridescente), esistono ancora; così come forse esiste l’Aquila di Mare di Steller dalla testa bianca, più grande di quella dorata, sebbene da allora sia stata avvistata soltanto due volte. Quanto alla Scimmia di Mare di Steller, che si elevò verticalmente nell’acqua per scrutare l’equipaggio della nave mentre attraversava al chiaro di luna lo stretto di Bering, doveva essere un maschio di Foca solitario, oppure qualche altro animale sconosciuto.
Nel 1741, durante la grande spedizione nordica di Vitus Bering, Steller fu il primo uomo bianco a metter piede in Alaska; qui, nel corso della breve permanenza, egli continuò a prender nota in un latino scrupoloso di una colonia di animali oggi nota con il nome di “Buoi di Mare di Steller”. Questi giganteschi mammiferi marini, imparentati alla lontana con l’Elefante, erano cugini del Dugongo (e quindi della Sirena), ma sopravvivono solo nelle meticolose annotazioni del naturalista, poiché furono sterminati dai cacciatori russi nel giro di trent’anni. Scivolavano tra le alghe sul fondo del mare come bovini delle praterie, muovendosi trasognati sulle zampe anteriori provviste di zoccoli, così presi dalla loro ghiottoneria da farsi dimentichi del pericolo, tanto che Steller riuscì più volte ad accarezzarli. Erano lunghi più di dieci metri e pesavano fino a quattro tonnellate, eppure eran antropomorfi in modo quasi commovente. Quando si accoppiavano, scrisse Steller, si abbracciavano come esseri umani e ogni volta che l’equipaggio affamato ne arpionava uno, gli altri accorrevano subito in aiuto cercando di spezzare la corda coi denti o di estrarre l’uncino con le code…”
Si racconta che nel corso dei vagabondaggi che lo vedevan impegnato ogni giorno nella raccolta di campioni fra piante e rocce, Georg Steller s’imbatté un pomeriggio in tracce di esseri umani scalzi, proprio vicino alla riva e poco dopo, s’accorse d’esser spiato da diversi individui vestiti in pelli con archi e frecce e... ”artigli conficcati di traverso tra le narici”. Questi si dileguarono rapidi ma fu forse quello l’istante in cui un occidentale incontrò per la prima volta un abitante autoctono dell’Alaska. L’equipaggio di Bering rimase nella zona per oltre un mese senza però mai più riuscire a scorgere alcun indigeno nonostante si continuassero a trovare tracce della loro presenza. Fu solo verso gli inizi di settembre (quando ormai Bering s’apprestava a partire) che si ebbero i primi veri contatti; fu quello certamente il momento che segnò l’inizio della fine…, ciò che portò allo sconvolgimento delle popolazioni native d’Alaska.
La San Pietro aveva impiegato sette settimane per raggiungere l’America e Bering stimava che ne sarebbero occorse altrettante per ritornare in patria; decise quindi di salpare al più presto poiché già alla fine di agosto lo scorbuto aveva reso invalidi molti uomini.
Il viaggio di ritorno si rivelò però una vera odissea…; lo scorbuto continuò a mietere vittime tra l’equipaggio mentre alla stanchezza e alla depressione si aggiungevano l’indebolimento ed altre forme di malattie. Finiti i metodi curativi di Steller, anche Bering si ammalò. Egli decise allora di andare a svernare sulla costa di una terra che lui riteneva fosse già Kamchatka. Si resero però presto conto che quelle coste non avevano nulla di familiare ma stanchi ed afflitti com’erano, decisero di non proseguire oltre: i malati si trovavano in condizioni spaventose e la morte colpì anche Bering nel dicembre dello stesso anno. Dopo aver riparato la nave durante la permanenza invernale, l’11 agosto i 46 superstiti ripartirono dopo aver collocato una croce sulla tomba del comandante.
L’Isola di Bering porta tutt’oggi il suo nome.
“Il passaggio a nord est così svelato, non definì certo la scoperta dell’Alaska, di un popolo o di una diversità (scrive la sociologa Sara Ciampo). Non fu l’incontro con l’Altro ma, come suggerisce la parola stessa, fu un “passaggio”; un passaggio per conquistare nuovi territori. Dopo circa due anni dalla spedizione di Bering, difatti, iniziò il primo sfruttamento della nuova terra (l’”America/Russa”) con la caccia sfrenata agli animali da pelliccia e l’assoggettamento dei nativi del luogo. La strada a ciò che sarebbe accaduto poi, era dunque stata aperta…”
Questo, di quelle prime audaci esplorazioni (e non certo i loro fatali effetti sulle popolazioni incontrate) è quanto sempre mi ha affascinato: il partire verso l’ignoto più profondo. Se dovessimo fare un parallelo con i tempi attuali, penso si potrebbe accostare l’avventura della San Gabriele e della San Pietro ad un viaggio interstellare della durata di decenni… Oppure, a ciò che mi accingevo a vivere io da quelle stesse coste, piccolo omino con la sua piccola slitta.
(Pag 127 del libro)
“Al contraio dei Lakota spazzati via con le armi da fuoco (spiega Sara Ciampo) i nuovi venuti incoraggiarono gli Athapasca a produrre per il commercio piuttosto che per l’uso, modificando in questo modo il loro tradizionale sistema di vita e di relazione sociale. La loro economia infatti si era sempre basata sull’aiuto reciproco; si cacciava per il gruppo intero con l’impegno di un mutuo soccorso per assicurarsi un margine di sicurezza anche quando la carne scarseggiava.
Di conseguenza, nella prima metà del ‘900, gli Athapasca cominciarono gradualmente a trasferirsi e concentrarsi in piccoli villaggi di solito vicino trading posts (centri di commercio) e missioni. E’ solamente negli ultimi 150 anni che si son stabiliti nei vari villaggi; ma fino a non meno di settant’anni fa i nativi ancora indossavano abiti fatti con la sola pelle degli animali cacciati mentre la maggior parte delle famiglie continuava l’usuale vita nomade sparsa nel territorio”.
(Pag. 334 del libro)
Nel 1896 con la scoperta dell’oro nella zona dello Yukon, nulla più riuscì a fermare l’ondata di coloni in cerca di fortuna. Fu così che l’Alaska fu per la seconda volta bacino di conquiste e ricchezze commerciali. Le zone interne (quelle degli Athapasca Koyukuk e Gwich’in per intenderci) fino ad allora rimaste inesplorate, furono presto invase e sfruttate dall’uomo bianco per l’ennesima realizzazione dei suoi desideri più antichi: ricchezza, guadagno.
Il desiderio di pregiate pellicce fu ciò che per primo portò gli occidentali in terra Gwich’in; questa sarebbe altrimenti rimasta isolata e tranquilla per chissà quanto ancora, remota ed inaccessibile qual’è. E furon le pellicce il nesso principale tra i nativi ed il mondo esterno nel corso degli ultimi 150 anni circa. Quando Alexander Murray fondò Fort Yukon per conto della Hudson’s Bay Company nel 1847, l’unico interesse fu quello di iniziare il commercio delle pregiate pelli. E fu così che, nel caso dell’Alaska, i bianchi giunsero nella dimora degli indigeni non per sottrarre terra (almeno nella prima fase) nè per guerreggiare, ma per arricchirsi. E poichè i nativi abitavano un terrritorio che mai divenne attraente per la gran parte degli occidentali, il rapporto tra i due gruppi rimase a lungo quasi esclusivamente basato sul commercio e sul baratto. Questo non deve però illudere poichè in un nulla gli ingenui nativi videro riversarsi sulle loro terre il peggio che l’occidente avesse da offrire. E ne rimasero devastati. Tutto questo, dai primi cercatori d’oro e di pellicce, alle devastanti malattie che ne conseguirono e che li falciarono, alle droghe e all’alcool di adesso, è stato come un fiume ininterrotto, che in tanti hanno definito “la sequela distruttiva” o, per voce di Etok, attivista Inupiat al di là delle montagne, la Grande Morte.
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TRADIZIONI
(Pag. 82 del libro)
“Normalmente, le reserve di cibo accumulate nel corso dell’estate e dell’autunno, iniziavano ad esaurirsi nel corso degli ultimi mesi invernali, quelli in cui era difficile riuscire a scovare animali da cacciare nella neve ancora profonda (racconta Eddie); quando ero bambino io si udivan storie di cacciatori che eran stati costretti a stanare con il fumo gli Orsi dal letargo, pur di salvare le proprie famiglie; una delle condizioni davvero più sfortunate che potesse accadere alla mia gente, era quando a inizio primavera, dopo un primo periodo di disgelo che ben iniziava a far sperare, subentrava poi, improvviso, una nuovo ritorno del freddo; le acque che avevan preso ad aprirsi richiamando i numerosi primi uccelli acquatici, sarebbero rigelate spingendo quella preziosa fonte di cibo di nuovo verso sud; e come se questo non fosse bastato, il freddo avrebbe di nuovo isolato anche Castori e Topi Muschiati sotto il nuovo ghiaccio. E le Lepri sarebbero divenute difficili da intrappolare a causa della neve rigelata che le avrebbe rese libere dalle loro usuali piste. E nel caso Alci o Caribù fossero stati nei paraggi, essi avrebbero udito facilmente un cacciatore avvicinarsi sulla neve fattasi crostosa.
(Pag. 83 del libro)
Se poi si sopravviveva alla fine dell’inverno e a questi improvvisi ritorni di gelo durante la primavera, allora si poteva iniziare a sperare; la pesca, soprattutto. Essi sapevano che l’arrivo dei pesci non appena il ghiaccio fosse svanito dai fiumi sarebbe stata la fine d’ogni patimento. Lo si attendeva lo scioglimento del ghiaccio e l’arrivo dei pesci, come si attende il proprio primo figlio…; i primi ad arrivare appartenevano alla famiglia delle Dallie. Si tratta di un pesce noto per la sua straordinaria resistenza al freddo: può sopportare temperature di -20 gradi per quaranta minuti e il congelamento di parti del corpo per più giorni. Per questo era il primo a comparire quando ancora il ghiaccio non era del tutto andato via. Sarebbero poi giunte le Anatre, cibo non più di sopravvivenza ma anche prelibato. Infine, con l’apparir del primo Salmone…, era quello il momento forse più bello di tutto l’anno: l’ennesimo lungo inverno, ora era davvero alle spalle.
“Da questo capisci il bisogno di trattare ogni animale ucciso con il massimo del rispetto e chi si vantava, era considerata persona di assai poco conto; per questo i cacciatori usavano estremismi pur di mostrarsi umili. Un cacciatore che avrebbe ucciso due grosse Alci, ad esempio, avrebbe fatto ritorno al villaggio dicendo: “Finalmente ho trovato due cuccioli”; in questo modo non avrebbe dato minimo segno di vanteria. Altro grande tabù era anche il divieto di commentare la stazza di un animale ucciso così come il parlare della quantità di carne che se ne sarebbe potuta ricavare perché tale atteggiamento sarebbe risultato assai poco rispettoso nei confronti dell’animale”.
“Le entità spirituali degli animali e dei boschi, non sono offese quando la gente uccide per utilizzarli, ma esse insistono sul fatto che queste creature o ciò che di esse rimane, vengano trattate con la deferenza ed il rispetto che si darebbe agli stessi umani.
L’animale ed il suo spirito sono un’unica entità; quando tu nomini l’animale, stai anche parlando del suo spirito. Ecco il motivo per cui alcuni nomi di animali sono hutlaanee, tabù. Poichè nominare il nome di un animale è come nominare il suo spirito, proprio come non pronunciamo mai il nome di una persona morta, sarebbe come richiamare il suo spirito e potrebbe esser pericoloso per chiunque lo faccia”. Richard Nelson, Hunters of the northern Forest.
“Nulla era scontato e nulla poteva esser lasciato al caso (conclude Eddie). Ecco quale rispetto dobbiamo ai nostri antenati: son stati in grado di sopravvivere per centinaia di anni senza nulla. Consegnandoci questa terra e ciò che siamo”.
(Pag. 338 del libro)
“Presso ogni Nazione nativa d’America esiston rappresentatzioni artistiche di ciò che per quel determinato gruppo è Sacro (vedi la Sacra Pipa dei Lakota, mi spiegò Sara Ciampo). Per i Tlinghit della costa ad esempio, le raffigurazioni totemiche sono sempre state una caratteristica importante. Le sculture sui pali di legno con le raffigurazioni di animali come l’Orca e l’Aquila (che tra l’altro son di una bellezza unica), rappresentavano l’associazione tra la popolazione e l’animale, sottolineando il rispetto nei suoi confronti e l’esclusività della loro appartenenza ad esso. I Gwich’in differentemente, non hanno raffigurazioni totemiche materiali del Caribù; hanno però danze con le quali ne imitano ad esempio il movimento ed il modo di camminare”.
“Senza il Caribù, noi non saremmo nulla; e non solo fisicamente”. Esattamente quanto valeva per i nativi Lakota, con il grande Bisonte poi sterminato per far passare la ferrovia di chi invase e spazzò via per sempre una cultura che era sopravvissuta in assoluto rispetto per millenni.
“La nostra fortuna fu che ci troviamo così a nord…” mi aveva commentato Sarah James.
“Per tale ragione fummo scovati per ultimi e questo ci diede modo di vedere… Per questo, stiamo continuando a dire No grazie!, e a difendere ciò che dalla notte dei tempi, siamo”
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COMMENTI
(Pag. 95 del libro)
Dunque era nella terra, ancora una volta, che avrei trovato i segni; gli stessi che forse ancora percorrono sotto forma di suoni l’Australia degli aborigeni, le Vie dei Canti, li definì Chatwin. Oppure, l’Inuksuk, per quel che riguarda gli eschimesi o i crani di cui ci narra l’antropologo danese Knud Rasmussen:
“Un pò più in là scorgiamo una lunga linea di crani di foca posati sul ghiaccio, col muso rivolto in una precisa direzione. Igjugarjuk ci spiega che la dimora dell’anima va da una battuta di caccia all’altra, in modo che un uomo possa uccidere più volte la stessa foca. Quando perciò ci si sposta da un vecchio accampamento ad uno nuovo, i crani devono essere messi in modo che il muso sia rivolto verso il nuovo territorio di caccia, così le foche passano da un posto all’altro e gli uomini non patiscono la carestia. Queste commoventi file di crani di foca mostran quindi la strada verso gli igloo abitati e, quindi, verso la Vita”.
Probabilmente (son trascorsi quasi ottanta anni da quando Rasmussen attraversò la terra degli Inuit con i suoi cani da slitta in un viaggio durato tre anni) questi crani oramai non saran più lì ad indicare la via; ma certo, ne resta il ricordo, la storia.
”Le nostre storie ricordano ciò che gli uomini dimenticano” scrive lo scrittore Abenaki Joseph Bruchac. Da questo, l’importanza fondamentale della narrativa tramandata per via orale, unico retaggio giunto intatto dal passato più remoto, per quel che riguarda i Gwich’in e le loro Deenaadai’ (assieme alla loro terra, come ben descritto da Richard Nelson).
“Noi viviamo in un mondo fatto di storie” mi aveva raccontato Eddie Frank, nonno di Julias. “Esse sono la connessione donataci dai nostri Antenati, la stessa che fu donata loro sin dai tempi più remoti. E così è che, quando ci spostiamo, ovunque noi si guardi, scorgiamo invisibili tracce eppur esse son a tal punto profonde che riescon a connetterci, a radicarci, ancora oggi…, nonostante tutto…”
Ciò che resta dunque di un popolo, ciò che si imprime nell’aria stessa di un determinato luogo diviene parte delle sue rocce, del suo suolo. E ci ricorda; o meglio, ricorda, a chi ancora sa udire.
Anche Massimo Maggiari nei suoi precisi vagabondaggi groenlandesi, si è imbattuto in tracce simili (poichè alla fine, sempre delle stesse si tratta per quel che riguarda i popoli che hanno vissuto in stretta simbiosi con la Natura).
Egli, a proposito degli Inuksuk, i grossi ometti di pietra eretti lungo le coste della Groenlandia (certo a segnar la via nel passato, come i crani, ma una via, oramai è compreso, non solo geografica) scrive:
“E’ forse l’Inuksuk l’ultimo guardiano del mondo Artico? In questo mondo di orizzonti sempre luminosi o tenebrosi, vengono chiamati Inuksuit (al plurale) dei tumuli di pietra costruiti dagli Inuit in diversi luoghi ed epoche.
L’Inksuk è un antico monito lasciato inciso nel paesaggio.
Un Inuksuk, lontano su di una collina, indica la via…
Gli Inuit ne parlano ancora in storie e canti, tramandando i nomi di quelle pietre miliari alle nuove generazioni.
Dicono: Guardatelo laggiù, quello è un Inuksuk, è stato costruito dagli antenati prima di tutti i tempi, guardatelo! Guardatelo bene, è simile a me e a te, e’ simile ad un umano che indica la via!
Gli anziani del mondo Artico sanno di queste cose e ne parlano per ricordare di quando gli eschimesi vivevano con anima e corpo in comunione con la Natura madre. Ne parlano…, eccome se ne parlano, di questo profondo legame arcaico, ancestrale. E le loro parole possiedono una forza diversa che germina radici e rami in chi le pronuncia. Tramite essa emana una presenza che ti guarda dritta negli occhi, puntando a una cosa chiara e semplice: l’ascolto rapito.
Sono loro i veri guardiani della soglia. Ne sono sicuro, sono ancora loro che celano il passaggio segreto, parzialmente esplorato…, del grande Nord”.
(Pag 98 del libro)
Con queste parole, l’antropologo Richard Nelson aveva descritto il territorio che ora m’attendeva innanzi:
“Per la maggior parte di noi occidentali, quel vasto tratto di foresta, tundra e montagne rappresenta la wilderness nel senso più assoluto della parola. Nella nostra mente, questo territorio è definito wilderness in quanto ancora indisturbato ed intatto, privo di qualsiasi segno di attività umana. Questi son i nostri parametri; per noi, terra incontaminata vuol dire terra non occupata o non utilizzata. In realtà però (e da tempi immemori), l’intera Alaska è profondamente conosciuta da persone le cui intere esistenze e la cui eredità culturale son intimamente connesse ad essa. In effetti, per le popolazioni native, queste terre non son più così selvagge di quanto non lo sian le strade di una città per i suoi cittadini. Il fatto che noi identifichiamo la grande terra selvaggia d’Alaska come “wilderness”, deriva dalla nostra incapacità di concepire che si possa occupare ed utilizzare un territorio senza alterarlo o distruggendolo del tutto. Ma Athapasca ed Inupiat ed altri hanno vissuto a questa maniera per millenni: nel rispetto. Certamente, allora, la loro si può definire una partecipazione di successo come membri dell’ecosistema; non certo potremmo dir della nostra. In questo mondo di degradazione ambientale ciò rappresenta una forma esemplare di adattabilità umana, tale da aver favorito per decine di millenni una convivenza sana dell'uomo con l'ecosistema. Certamente, noi siamo stati incapaci di utilizzare le nostre terre allo stesso modo”.
(Pag. 253 del libro)
Nelson:
“Il fatto che questo vasto territorio non abbia conservato, nel corso dei millenni, la minima traccia del continuo passaggio e del costante abitarvi dei nativi Athapasca, non vuol dire che essi non siano esistiti. Questo fatto, a mio avviso, è anzi un’eredità che va ben oltre quella rappresentata da ogni Piramide o opera di Michelangelo…: il fatto che, nonostante continuativa ed intensa attività umana, essa resti essenzialmente invariata. Uniche tangibili evidenze di questa lunga occupazione son resti di campi sparsi qua e là, stretti sentieri invasi dal sottobosco, e baite i cui tronchi son oramai rivestiti di muschi e piantine di mirtillo. Ma in pratica, anche tali radi segni è difficile riuscire a scorgere, nella vastità del territorio, a meno che, appunto, non vi si sia vissuti. Ed è questo ciò che permane ancora oggi, ciò che continua a collegare come filo invisibile i Gwich’in moderni ai loro antenati: l’aver creato quest’altro tipo di impronta, quella di cui si può far esperienza solo tramite lo spirito, solo tramite le tradizioni che unirono le persone alla terra che li sosteneva. Dipendenza e simbiosi a tal punto diretta e prolungata con l’ambiente e del tutto ignota a noi occidentali. Questa impronta ha fatto sì che si potessero ancora oggi perpetuare le tradizioni che non solo fanno dei Gwich’in ciò che sono, ma che soprattutto, fanno della loro terra ciò che essa è.
(Pag. 308 del libro)
“Chiunque si sposti attraverso le terre del Nord si rende presto conto che esse son fatte di numerose e diverse comunità (scrive l’antropologo Richard Nelson): boschi fitti ed intricati, paludi punteggiate dal bianco Erofiore, dense macchie di Salici o Betulle nane, corsi d’acqua e laghi. Ma tutto ciò, costituise solo la parte visibile, poichè esiste un altro livello oltre a questo, livello conosciuto solo da coloro che da sempre hanno tratto da quella terra tutto quanto occorre per sopravvivere. Solo dopo un’intera esistenza di uso e dipendenza questo labirinto vien disvelato”.
Si può dire che per i Gwich’in ogni ansa di fiume, ogni boschetto o radura tra le montagne sia un Inuksuk noto da tempi remoti.
(Pag. 325 del libro)
Scrive Rick Bass: “Quanto vuote risuonano le parole emanate da questa nazione a favore dei diritti umani quando, col medesimo respiro che le pronuncia, sradichiamo i diritti della nostra stessa gente (nativa e non) di respirare aria pura, di bere acqua pulita e di poter vivere in un mondo in cui la natura ancora esiste. Ogni anno divengo sempre più mortificato dal mio governo; e provo vergogna per la disparità sempre più ampia tra ciò che la gente “commune” desidera e le segrete pratiche, le segrete alleanze dei “grandi” uomini d’affari ed il governo; ma la mia vergogna e la mia mortificazione non saran mai tali da farmi desistere o da farmi tornare indietro. Questo autunno il presidente degli Stati Uniti e il governatore dell’Alaska Murkowsky (altro burattino delle compagnie) riproveranno ad aprire il Refuge alle trivelle cercando al contempo di ammaliare la gente Americana col fatto che questo è giusto, che questo è indispensabile e sacrosanto…, e di far sì che le persone possan credere che tutto va bene, che c’è la pace in terra e che la nostra è una nazione dorata e benedetta da dio: Riposate tranquilli, dormite bene…; questo sarà il messaggio. Continuate a dormire. Dormite come se vi trovaste sotto 10.000 anni di ghiaccio. La mia gratitudine ancora una volta va ai Gwich’in che si trovan nel loro ultimo disperato sforzo per sopravvivere, fornendo al contempo a tutti noi una vera lezione di risveglio”
(Pag. 321 del libro)
Dopo la morte di Olaus nel 1963, col cuore spezzato ma ancor più determinata a portare avanti ciò che assieme avevan creato, Mardy continuò ad esser icona ed ispirazione per tanti giovani americani e non solo; la conservazione della wilderness e l’educazione ambientale restaron sua priorità fino a tarda età. L’Università d’Alaska le rese onore nel 1976 assegnandole una laura in Lettere Umane. Il presidente Clinton accolse Mardy in Senato per onorarla con la Medal of Freedom, una delle più alte onoreficenze al valor civile in America. Il celebre cantante di musica Country John Denver (altra grande anima pura…) andò a trovarla spesso nei suoi ultimi anni nella grande Cabin in tronchi tra i boschi di Moose, nel Wyoming. Egli un giorno (lì di fronte a lei) le compose “A Song for All Lovers”, un omaggio alla vita di Mardy e di suo marito Olaus che strappò dolci lacrime all’anziana Margaret Murie…
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ARCTIC REFUGE (riferimenti storici e sociali)
(Pagg. 181/182 del libro
“Trivellare ogni ultimo santuario naturale degli Stati Uniti, non riuscirà mai a portarci oltre quel 3% che riusciamo a produrre. Da tempo abbiamo oramai succhiato fino al midollo ciò che poteva esser succhiato: possiamo adesso continuare ad importare dagli altri paesi o potremmo inventarci e sviluppare diverse tecnologie (tante delle quali già esistenti), oppure possiamo semplicemente estinguerci come specie a rischio; ma in ogni caso, lo si voglia o meno capire, il petrolio nella nostra nazione, proprio non c’è più.
Ciononostante, se anche si volesse pappare quell’ultimo 5%, ci vorrebbero circa dieci anni per veder apparire la prima goccia d’oro nero, e poi, anche al picco della produzione, questo petrolio del Caribù fornirebbe solo il 3% di quella che è oggi la folle domanda di consumo degli Stati Uniti… Gli apologeti dell’industria si lamentano di tutto questo agitarci e preoccuparci, ed affermano che i lavori prenderebbero solamente 800 ettari…(Questo rammenta un brano letto sul National Geograhic del 1976: “Pat Valkenburg, pilota e biologo in pensione del Dipartimento di Caccia e Pesca dell’Alaska, plana su di un fazzoletto di tundra. “Eccolo” dice, puntando verso una conduttura d’acciaio abbandonata che emerge dal terreno. “L’unico pozzo-test che scavarono nell’ANWR. Non sembra questo gran scempio vero?”. Devo ammettere che ha ragione. Abbiamo trascorso le ultime tre ore sorvolando alcuni dei paesaggi più spettacolari della Terra: il Mare di Beaufort, la tundra color cuoio della Pianura Costiera punteggiata di Caribù, il profilo delle colline che salgono su fino ai Monti Brooks. Per quanto incredibilmente bello, è questo ciò che m’aspettavo. Eppure, è proprio quella piccola conduttura ciò che simboleggia la scelta ultima dell’intera nazione: se lasciare che un angolo dello Stato più selvaggio rimanga come è stato per millenni, o stravolgerlo del tutto al fine di soddisfare la nostra insaziabile sete di petrolio).
Ma questo non fornisce un’idea chiara, può anzi creare fraintendimenti (che è a quanto di certo anelano); questo non ci racconta del dedalo di nuove strade che attraverseranno i territori di figliazione, nè delle centinaia di chilometri di nuovi oleodotti con le loro belle perdite annesse, nè del fetore e del chiasso dei pozzi che scuoton la terra, nè delle nuove piste d’atterraggio coi loro bei traffici aerei…, i dormitori, le mense…
Ottocento ettari (la grandezza media di uno dei nostri centri commerciali…) in cambio (per soli 6 mesi di greggio) di ciò che fu Sacro…”
(pag 183 del libro)
“Quando venne scoperto il petrolio a Prudhoe Bay nel 1968 sulle coste dell’Oceano Artico il territorio era vincolato a causa delle rivendicazioni degli indigeni. Le compagnie petrolifere avevano bisogno di un permesso speciale dal governo federale degli Stati Uniti per portare avanti i lavori di installazione dell’oleodotto. Data la difficoltà della situazione, le compagnie decisero di trattare direttamente con i nativi. Per poter costruire l’oleodotto senza che essi protestassero, promisero loro tante cose, appunto.
Naturalmente, dopo un paio di anni dall’inizio dei lavori, nessun villaggio aveva ancora ricevuto del denaro. I nativi, denunciato l’accaduto, riuscirono a bloccare i lavori grazie anche ad un giudice di Washington che, sposata la causa, fece bloccare le ruspe.
Così ancora una volta fu consigliato alle compagnie petrolifere di negoziare direttamente con i villaggi interessati per trovare un accordo per una più adeguata soluzione. Ma poiché il rifiuto Athapasca restava compatto, le compagnie si rifiutarono di riconoscere il diritto politico ai nativi e, rivolgendosi direttamente ai loro lobbisti a Washington, cercarono di premere affinché non concludessero la proposta di legge che avrebbe risolto in modo definitivo le rivendicazioni del territorio da parte degli indigeni. Nacque invece (grazie alle solite sporche mosse politiche), l’Alaska National Settlement Claims Acts, l’ANSCA (Atto delle Rivendicazioni Territoriali). Questo, nonostante a leggere possa suonare a favore dei nativi (ma che già nel nome, ne rivelò solo l’ipocrisia degli intenti), fu l’ennesima menzogna (dalla scoperta di Colombo), per non dire di peggio, nei loro riguardi; allettati da un’immensa riserva di oltre 180 mila chilometri quadrati (la Venetie Indian Reservation, appena a nord di Venetie, ai piedi delle Brooks Mountains) gli Athapasca furono scavalcati a piè pari. Fu l’ennesima grande violenza mascherata stavolta dalla patina delle…”cose fatte per bene”; l’ANCSA passò, cancellando così per sempre il potere giurisdizionale dei nativi (ma c’era mai stato…, sin dai tempi di Berings…?, aggiunge Dave con un mesto sorriso). Ora davvero non esiste una terra indiana in Alaska, il che vuol dire che essi non hanno alcun tipo di potere politico. Sono stati resi completamente impotenti. Sono indifesi, innocui per colpa delle compagnie petrolifere; la loro posizione legale era uguale a quella della gente che arrivava da fuori per lavorare all’oleodotto”.
Ascoltiamo con occhi che non batton più ciglio, Bea, Gully e me; per questo Dave torna a ripetercelo: “No, non avete capito male… Il risultato fu proficuo solo per le compagnie le quali, in cambio dei 180 mila chilometri quadrati (circa metà Germania…) donati ai nativi e quasi un miliardo di dollari, riuscirono a togliere alle popolazioni autoctone qualsiasi diritto sulla terra. La decisione fu quasi unilaterale ma in realtà i nativi avevano poca scelta.
Fu un po' come il ripetersi della medesima storia, non solo di quella iniziata con Colombo…” sorride Dave. “Era già accaduto il 18 marzo 1867 quando la Russia aveva venduto l’Alaska e le isole Aleutine agli Stati Uniti per una somma pari a 7.200.000 dollari. Naturalmente… neppure quella volta nè la Russia né gli Stati Uniti ebbero la buona creanza di consultare le popolazioni native riguardo tale transazione”.
“Ma ti rendi conto!” sbotto io.
“E’ come se entrassi in casa tua con un magnate o un politico e senza neppur guardarti in volto (non dico chiedere…) iniziassi a trattare la vendita di tutti i tuoi mobili e libri ed oggetti!”. Anche Gully scuote il suo testone bianco e nero…
“Intorno al 1974 iniziarono i lavori di costruzione della Pipeline (riprende Dave) che in seguito sarebbe divenuto uno degli oleodotti più lunghi al mondo (circa 1300 chilometri). Nel ‘78 fu completato con una spesa di 8 miliardi di dollari e con una portata di circa un milione di barili al giorno… Sarebbe interessante farvi leggere quello che i politici rispondevano alla domanda: E che ne sarà dei Gwich’in che vivon lassù? Dicevano: Quelli vivono un’esistenza misera e pidocchiosa. Li traslocheremo in condomini ad Anchorage ed avranno una vita migliore. Non capivano che quella gente è felice. E’ di casa lassù e ci vuole restare. A loro sembrava invece un’esistenza squallida…
E’ dunque contro questo che si battono i Gwich’in da anni: evitare una nuova Pipeline e nuovi pozzi sul sacro luogo del Caribù…
“La costruzione della strada che porta a Prudhoe Bay (riprende Dave) ha poi dato facile accesso a cacciatori e pescatori che son arrivati in numero sempre crescente per sfruttare il territorio che sosteneva i nativi. E questi turisti ammazzano gli animali ed i pesci che son tuttora alla base della sopravvivenza Athapasca.
Riprende Dave: “In secondo luogo bisogna sapere che le compagnie petrolifere in Alaska sono talmente ricche che monopolizzano la politica, la legislatura…
L’Alaska, purtroppo, non è come il resto del mondo dove se hai avuto il 5% del voto, hai il 5% della rappresentazione, come i Verdi ad esempio. Qui, o vinci o perdi. Così i Repubblicani, che favoriscono lo sviluppo economico e lo sfruttamento della terra, detengono il 100% del potere politico e i nativi e gente come me a favore di un’economia più sostenibile in Alaska, non ha alcuna voce in merito.
Questo spiega perché gli Inuit nell’Artico difendono (in parte) l’idea di perforare il Luogo Sacro, mentre i Gwich’in, che non hanno visto un dollaro, sono contrari. Gli Inuit vanno inoltre a caccia di animali marini, come le balene e le foche che son assai meno toccati dall’industria del petrolio mentre i Gwich’in dipendono dal Caribù. E così c’è una sorta di contrasto tra gli Inuit ed i Gwich’in che va avanti da una generazione ed il contenzioso è la presenza dell’industria petrolifera nel Luogo Sacro. Lotta che, negli ultimi tempi, un poco per fortuna, un poco neanche tanto, si sta affievolendo, dal momento che ora, anche gli Inupiat si sentono minacciati dal crescente interesse delle compagnie del petrolio di andar a trivellare anche nei loro mari…; questo, quanto meno, sta unendo in una sola voce Gwich’in ed Inupiat.
Il Luogo Sacro, quello che i burocrati di Washington hanno semplicemente etichettato come la 1002 Area, è una zona critica dal punto di vista ambientale ed è vitale per i Gwich’in. Tutta la loro cultura ed il loro sostentamento è basato sul Caribù, la loro vita spirituale, soprattutto: stanno combattendo per questo, lo sai. E per evitare che non accada ciò che già ovunque altrove in cima all’Alaska (con la costruzione dell’oleodotto e dei pozzi a Prudhoe Bay), è accaduto da tempo. In altre parole, voglio ripeterlo, stiamo parlando di proteggere l’ultimo 5% di costa rimasto vergine proprio per il fatto che lassù è sacro da millenni a Caribù e Gwich’in. Trovo amorale il solo fatto di dover anche solamente dibatter in merito: non dovremmo neppur pensarlo di andare lassù a pigliarci anche quell’ultimo pezzo di terra…”. Queste ultime parole ricalcano appieno quelle di Karsten Heuer che nel suo “Being Caribou” così scrive:
“Sarebbe proprio come lanciare una freccia nel bel mezzo dei territori più sensibili del Caribù, colpendoli in pieno petto. Di tutti quei 250.000 chilometri quadrati di cui l’intero Arctic Wildlife Refuge è composto, proprio quell’esatto esiguo tratto di terra tra le montagne e l’oceano dovrebbe esser assolutamente lasciato in pace”.
Segue un lungo silenzio nel quale Dave fissa di fronte a sè, a vedere e a sentire ciò che forse neppure io, col mio dolore e l’impegno per questa marcia in sci, ho mai visto né udito. Gully, come sempre, segue i suoi occhi con medesima espressione.
“Se gli alberi e gli animali spariscono, la gente non potrà sopravvivere “riprende fissandomi dritto. “E l’unico modo che abbiamo per imparare a vivere in modo appropriato ed efficiente, è seguire l’esempio dei Nativi. Rispettando la terra. Loro sanno esattamente come vivere qui; non devastano per riempirsi di soldi e poi abbandonare tutto. Per me la gente che lo fa è come fosse drogata. Un drogato ruba a chiunque; al proprio partner, all’amico, alla nonna, a chiunque, pur di soddisfare il suo bisogno: e non è mai sazio”.
(Pag. 296 del libro)
“La linea di costa dell’ANWR, è lunga all’incirca 200 chilometri“ scrive Rick Bass in Caribou Rising. “Questo vuol dire che i restanti 10.500 chilometri son già aperti all’esplorazione da parte dell’industria del petrolio; eppure è proprio lì, anche lì, in quei 200 chilometri, che i maiali vorrebbero ancora andare ad abboffarsi. Ed è qui, ancora, che tutti noi americani siamo messi alla prova, quasi una sfida: una sfida a prenderci la responsabilità e alla disciplina necessaria per mantenerla, qualità che un tempo, come nazione, avevamo a profusione. Ancora una volta, non son i Caribù nè la Nazione Gwich’in coloro cui vien data un’altra possibilità. Siamo noi, americani, coloro ai quali vien data quest’ultima opportunità”
Parole sacrosante, parole semplici, ovvie…; eppure, ai più incomprensibili.
Ora, prima di tornare ai duecento chilometri del Luogo Sacro, lasciate che spieghi meglio cosa è già accaduto lassù nel NPRA, il National Petroleum Reserve of Alaska, questo il nome dato a tutto il restante tratto di costa e territorio (i 10.500 chilometri) aperto allo “sviluppo” petrolifero. Un territorio che potrebbe esser la controparte dell’Arctic Refuge ad est: ad ovest la distruzione ad est il luogo ove ancora sopravvive il silenzio. Certo, non una controparte equa: basterebbe osservare una mappa dettagliata per notarne l’evidente disparità. Ma ciò che subito (almeno a persone come me) salta all’occhio e stringe lo stomaco è appunto il nome stesso prescelto per una zona così immensa (un quarto dell’Alaska?), zona un tempo vergine e popolata da innumerevoli famiglie Inupiat ora costrette a sorbirsi puzzo, rumore ed inquinamento; indecente solo vedere quella scritta National Petroleum Reserve, ancor più quando contrappoosta, poco più ad est, a quella più piccola: Artic National Wildlife Refuge; che vorrebbero cancellare, annullare per sempre, inghiottendo anch’essa come mai fosse esistita, assieme ai suoi ultimi nativi. La sociologa Sara Ciampo ci dà un’idea di prima mano di quanto accade nei dintorni di Prudohe Bay (un villaggio sorto negli anni ’70 sulla costa dell’Oceano Artico e che quando ci si vola sopra sembra invece la periferia industriale di Milano!) e in generale ovunque nella vasta NPRA…:
“E’ difficile non restare impressionati da quello che duro lavoro, tecnologia e un’indecente quantità di denaro son riusciti a tirar fuori da uno degli ambienti più inospitali della Terra. Ma è altrettanto impressionante l’impatto sul territorio. Nel marzo scorso, un oleodotto corroso della BP ha provocato la più vasta fuoriuscita di petrolio nella storia della NPRA (circa 757 mila litri stimati), una delle centinaia che si verificano ogni anno. Turbine giganti rombano giorno e notte rilasciando nell’aria una maggior quantità di certi inquinanti rispetto quella riscontrabile nelle metropoli statunitensi. Ma quel che è peggio, è che non esistono progetti per bonificare l’area causa i costi esorbitanti; la tundra quindi non verrà mai sanata il che alza ancor più la posta in gioco nella battaglia per l’Arctic Refuge!”
Duecento chilometri ancora intatti dunque, contro i restanti 10.500 già divorati… Intatti per il Caribù, poichè appunto quel piccolo territorio restante fa parte dell’Arctic Refuge. Ma allora (penso in tanti si chiedano e salta all’occhio se si osserva la mappa con un minimo di attenzione); allora…, perchè questa lotta, perchè il continuo dibattimento al Senato, perchè la resistenza Gwich’in per un luogo che, in teoria, è già protetto dal 1960…? La risposta è tutta nella definizione con la quale il fazzoletto (610 chilometri quadrati, per l’esattezza) è stato bollato dai burocrati a Washington; non dunque l’Iizhik Gwats'an Gwandaii Goodlit dei Gwich’in, bensì la “1002 Area”. E a questo punto, la spiegazione è doverosa e ancora una volta, ce la fornisce Karsten Heuer:
“A chi osservasse la carta e non sapesse nulla, non vi sarebbe dubbio alcuno: sarebbe impossibile, poichè la zona immediatamente a ovest del Parco Nazionale Ivvavik in Canada è proprio l’Arctic National Wildlife Refuge; il nome stesso Refuge (non solo il vederlo lì ben disegnato ed arginato sulla mappa) infonde e suggerisce protezione assoluta anche per la fetta americana del Porcupine Caribù. Basterebbe però informarsi appena e si verrebbe all’istante a conoscenza della controversia che lassù va avanti da decenni. Perchè questo, com’è possibile in una zona che è segnata come parco nazionale e Rifugio? La ragione risiede in quel piccolo compromesso (piccolo quanto tutti i 610 chilometri quadrati della casa del Caribù…): quando nel 1980 il presidente Carter riuscì a far raddoppiare l’estenzione del territorio (protetto già nel 1960 dal president Eisenhauer ma che non comprendeva le pianure del Caribù), includendo così il Luogo Sacro della costa, egli fu costretto all’ultimo (al fine di far passare la proposta) a questo terribile compromesso: la creazione della “1002 Area”. Nell’atto che comunque incluse quest’ultima nel Refuge, venne quindi specificato che… “Eventuale ulteriore ricerca sarà consentita prima che il Congresso possa designar definitivamente come protetta anche questa zona”. Le ragioni di tale mossa furono ben chiare: la “Zona 1002” non era solamente cuore biologico del Refuge, luogo ancestrale di figliazione di Caribù e tanti altri animali; quel che avevan subodorato i magnati-divoratori eran tanti nuovi dollari da poter infilare nelle proprie tasche per il fatto che al di sotto di tale luogo, i geologi sospettavano una delle più grandi reserve di olio nero di tutti gli Stati Uniti: sei mesi di petrolio, per l’esattezza. Una battaglia lunga decenni era appena nata”.
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VADZAIH, il Caribù
(Pag. 297 del libro)
Osservando la nascita dei cuccioli sulle pianure costiere coi propri stessi occhi e notando di come, nel periodo della figliazione vi fossero presenti esclusivamente le femmine di Caribù, Karsten scrive:
“I grandi maschi di Caribù erano evidentemente assenti, rimasti nei loro luoghi di sverno nell’attesa (ogni volta) che la neve fondesse per poter poi raggiungere l’Artico con maggior facilità nella tarda primavera. Le femmine non hanno un tale lusso. Anche da dove ci trovavamo noi i loro ventri dilatati eran ben evidenti; questo le sospingeva verso nord, instancabili portatrici di vita: dovevano andare, si trovavano nella zona di transizione ove avrebbero ancora potuto trovare il cibo scavando nella neve e la zone ove non avrebbero dovuto scavare affatto, le pianure costiere. E senza ombra di dubbio, esse avevan avuto un impeccabile tempismo; se fossero arrivate con una settimana d’anticipo, il sole non avrebbe avuto ancora la forza di fondere i compatti strati di neve ventata e se avessero atteso più a lungo, esse si sarebero trovate senza cibo a sguazzare nella pesante neve bagnata.
Anche se poi si sparpagliano un pò ovunque, aveva detto Karsten parlando dei loro vagabondaggi estivi (unici momenti di vero meritato riposo), quando giunge il momento di tornar indietro (come una campana che suoni a raccolta) l’immenso gruppo torna ad aggregarsi. Nulla li ferma: se il ghiaccio è troppo sottile per sorreggerli essi guaderanno a nuoto. É impressionante il modo in cui fanno queste cose. Per questo non possiamo che rispettarli.
(Pag. 299 del libro)
“Estati più calde voglion dire che l’erba ed i licheni hanno spesso già passato il loro meglio prima del sopraggiunger dei Caribù. Per render le cose peggiori, inverni meno freddi producono maggiori precipitazioni nevose sulle montagne. Questo vuol dire che la migrazione viene ulteriormente rallentata dalla neve fonda e dai fiumi ingrossati dal disgelo della neve. Quest’anno le precipitazioni nevose son state più del doppio rispetto alla media e neve e ghiaccio son andati via con più di un mese di ritardo”
(Pag. 300)
Quando arriva il Caribù, arrivano tanti altri animali. Vediamo Scoiattoli, Uccelli, diversi tipi di mosche, zanzare. Quando li vedi arrivare sai che stanno per giungere i Caribù!, m’aveva spiegato Faith sorridente come una bambina.
“Indomiti cittadini del mondo, essi arrivano via terra, via ghiaccio, via mare e via aria”: nel dicembre del 1979 il National Geographic pubblicò uno splendido articolo sull’Arctic Refuge dal titolo: “La Nostra Natura più Selvaggia, Così vuoto eppur così pieno”.
“…Gruppi di Caribù giungon come turbini di vento, brucano, si spostan ovunque mentre le Oche delle Nevi come folate di fiocchi bianchi scivolano sopra un territorio che brilla per i rinati fiumi e le migliaia di laghi; vitalità che erompe d’ogni dove e colma di stupore: questo è il più vasto santuario naturale del Nord America.
E’ un luogo di incessanti arrivi, dopo i lunghi mesi invernali attraversati solo dai Lupi e da qualche Pernice o Volpe Artica; giungon d’ogni dove, è un circuito annuale simile ad una maratona attraverso fiumi gonfi, terreni innevati, montagne e paludi; molti animali come il Caribù (per ragioni meglio comprese da loro) compion 2000 chilometri (solo andata…) per completarlo: é un circuito antico al punto che piste di infinite generazioni di Caribù modellano i fianchi dei rilievi dell’Artico come fosse una forza geologica
L’Arctic Refuge, non è però loro rifugio esclusivo: è bene comprendere che la zona contesa non è critica solo per il Caribù bensì per un gran numero di altri animali. Vi è presente la migliore e più alta concentrazione di tane di tutta la popolazione d’Orsi Polari del Mare di Beaufort; alcuni di essi arrivano qui sin dalla Siberia (e anni più tardi, nel corso della mia seconda traversata in sci per il Refuge, ne feci esperienza…); ed è habitat fondamentale per la nascita e la crescita di Buoi Muschiati, Volpi Polari, Lemmings oltre che per un’infinità di mammiferi minori presenti nella zona tutto l’anno. Ma il Refuge non si esaurisce a terra…: le Foche, gli splendidi Beluga, i Trichechi e la Bowhead, la Balena della Groenlandia (tutti già nella lista degli animali a rischio estinzione) nonchè numerose specie di pesci…, ognuna di queste creature (come quelle che lo fan via terra o via aria) giunge lassù da distanti zone dell’Oceano (per trascorrer l’estate nelle baie e negli estuari lungo la costa) o della Terra.
E’ inoltre luogo di accoppiamento e di nidificazione per oltre 130 specie di uccelli migratori che giungon da ogni continente: i Falaropi Beccolargo che girano nelle secche in cerca del loro pasto a base di larve d’insetti e di crostacei; i Germani Reali e i Codoni che trascorrono i mesi freddi in California, le splendide Gru che svernano nel sud ovest degli Stati Uniti, gli Zigoli di Lapponia che lo fanno nelle Grandi Pianure, i Pivieri Dorati in Argentina mentre il Piro Piro si spinge fin giù in Equador. Il Culbianco e la Cutrettola Gialla portan invece i propri canti dall’Africa mentre le Sterne Artiche volano fino alle coste dell’altra calotta glaciale, l’Antartide. Verso inizio settembre poi, circa 300 mila Oche delle Nevi giungono sulle coste dell’Arctic Refuge dal delta di Mackenzie in Canada e dall’isola di Wrangel per crear nuove riserve di grasso e ritemprar le energie nutrendosi di radici, frutti selvatici e dell’elegante Cotton Grass (il Pennacchio a Foglie Strette), meglio conosciuto come Erofiore, prima di continuare il loro lungo viaggio verso sud.
E’ questo dunque il luogo in cima al Pianeta ove in tanti (come il Caribù) vengon al mondo. Il luogo nel quale, quando tepore e luce tornan ad accarezzare la tundra, la primavera erompe in un flusso benedetto, quasi scaturisse da un pozzo senza fine presente sotto la superficie.
E poi, ultimi (ma di pari importanza) a condividere il Luogo Sacro, e in questo caso, spiritualmente, vi son i Nativi con la loro antica cultura. I Gwich’in (per i quali il Caribù continua ad esser perno del nutrimento fisico e spirituale assieme), hanno più volte presentato denuncia presso le Nazioni Unite facendo presente quanto lo sviluppo proposto violerebbe la Carta Internazionale dei diritti dell'uomo. Nel frattempo, nei loro uffici e laboratori, gli economisti aziendali e i geologi continuano a raffinare le proprie previsioni per un profitto finanziario il più lucrativo possibile; non importa a quali costi ecologici e culturali”.
A conclusione per far avere tutti i dati ben chiari a mente…, chiudo con lo scrittore Rick Bass che da diversi anni ha ormai eletto Arctic Village quale sua seconda (se non prima) dimora:
“Ricordo una particolare citazione del ministro degli interni Gale Norton che infine venne a visitare gli abitanti di Arctic Village la quale, nonostante abbia detto che qua si era sentita a casa…, per quel che riguardava il preservare il Caribù e la cultura Gwich’in, gli interessi di questi ultimi dovevano esser soppesati contro quelli del fututo di tutti i bambini americani e del loro bisogno di avere case calde, lavoro e un’economia prosperosa.
Ciò che non veniva menzionato erano le annuali perdite di petrolio (oltre 115.000 litri ogni anno). Nè le 56.000 tonnellate di ossido nitroso che inquinavano l’atmosfera del nord Alaska ogni anno, più del doppio di quelle emesse da Washington; già tre aereoporti lungo la costa e oltre 800 chilometri di strade e oleodotti; nonchè 2400 chilometri di costa insozzata dalla sola Exxon Valdez.
Come se avessero importanza in questa storia, come se avessero o meno un peso su ciò che accadrà, ecco altri numeri:
Quei poveri bambini tremanti di freddo a Washington o a Los Angeles…, quei bimbi che traranno beneficio dal grande senso civico e dalla magnanima filantropia delle compagnie petrolifere…, questi bambini, sapranno mai a quale costo questo lusso accada? Mentre noi, i gentiori, abbiamo lasciato che le compagnie petrolifere potessero garantirci la nostra assoluta dipendenza dai combustibili fossili per quel che riguarda i consumi energetici; riusciremo mai a provarne vergogna? Abbiamo eletto legislatori che si rifiutano di migliorare gli standard economici del combustibile…, sin dal 1996, quando il Congresso decise di inchinarsi di fronte le pressioni delle case automobilistiche; pressioni volte a bloccare gli standard di consumo delle auto. Nel 1997 la Big Oil (letteralmente la Gran Petrolio…) e le industrie del motore elargirono ben 34 milioni di dollari ai vari candidati in Senato: come per magia (guarda un pò), il Congresso ritardò fino al 2002 la richiesta di uno studio sul problema di migliorar l’efficienza delle auto (per quanto a tutt’oggi si rifiuti di creare nuovi standards al contrario addirittura di Cina ed India!). Considerando il fatto che gli Stati Uniti da soli consumano circa 18 milioni di barili al giorno, risulta evidente che se si migliorassero gli standards per quel che riguarda ad esempio i soli veicoli, si potrebbe salvare più petrolio di quanto ne produrrebbe mai l’Artic Refuge anche nei più sfrenati sogni del senatore Murkowski… Ma come se non bastasse, a tutto ciò ci aggiunge il fatto che, se comunque decidessero di spazzar via nativi e Caribù per dar spazio alle trivelle, la prima goccia di petrolio raggiungerebbe la superficie solo dieci anni dopo l’inizio dei lavori (questo, come il fatto dei soli 6 mesi, continua a lasciarmi basito!).
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Pag. 21
-Gwich’in Niintsyaa-
Risoluzione del Raduno Biennale
Risoluzione a favore della Protezione dei Luoghi di Figliazione del Caribù di Porcupine
Considerato che:
Per millenni la popolazione Gwich’in dell’Alaska nordorientale e del Canada nordoccidentale son dipesi dal Caribù per cibo, vestiario, riparo, attrezzi; e che a tuttoggi il Caribù di Porcupine resta essenziale per soddisfare i bisogni nutrizionali, culturali e spirituali del nostro Popolo; e
Considerato che:
I Gwich’in hanno il diritto intrinseco a continuare il nostro stle di vita; e che tale diritto è riconosciuto ed affermato dalle nazioni civili tramite patti internazionali relativi i diritti umani. L’Articolo n°1 della Carta Internazionale dei Diritti Civili e Politici, ratificata dagli Stati Uniti, così recita:
“In nessun caso può un Popolo esser deprivato dei propri mezzi di sussistenza”; e
Considerato che:
La salute e la produttività del Caribù di Porcupine e la sua disponibilità per le comunità Gwich’in e lo stesso futuro del nostro Popolo, son messi a serio rischio dalla proposta di esplorazione per gas e petrolio nei luoghi stessi di figliazione della mandria all’interno dell’Arctic National Wildlife Refuge; e
Considerato che:
L’intera Nazione Gwich’in venne chiamata a raccolta dai nostri Leaders ad Arctic Village dal 5 al 10 giugno 1988 al fine di eviscerare con attenzione questo problema e di tentarne una soluzione grazie il consiglio dei nostri anziani; e
Considerato che:
L’intero Popolo Gwich’in (dalle comunità di Arctic Village, Venetie, Fort Yukon,
Beaver, Chalkyitsik, Birch Creek, Stevens Village, Circle, ed Eagle Village in Alaska;
Old Crow, Fort McPherson, Tsiigehtchic, Aklavik, e Inuvik in Canada) ha raggiunto pieno consenso e parla a voce unica; e
Considerato che:
Il Popolo Gwich’in ed i Leader di ogni nostra comunità si incontrano ogni due anni sin dal 1988 per riaffermare la nostra posizione guidati dalla saggezza degli anziani;
SIA DUNQUE ORA DECISO:
Che il Presidente degli Stati Uniti ed il Congresso riconoscano il diritto del Popolo Gwich’in a poter continuare il nostro stile di vita, proibendo una volta per tutte lo sviluppo dell’industria petrolifera nei luoghi di figliazione del Caribù di Porcupine; e
VENGA ALTRESI’ DECISO:
Che la “1002” Area dell’Arctic Naional Wildlife Refuge venga designata quale “Wilderness Area” al fine di proteggere per sempre il Sacro luogo dei Caribù.